Di seguito pubblichiamo una sintesi di un lungo articolo “fuori dal coro” del giornalista e saggista britannico Jonathan Cook, uscita su Middle East Eye il 14 febbraio 2025.
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Jonhatan Cook apre il suo articolo sottolineando che la retorica e le politiche promosse da Donald Trump, pur essendo particolarmente esplicite e controverse, non hanno creato una situazione nuova a Gaza. L’attacco israeliano su Gaza non è stato una reazione improvvisa, ma l’ultimo capitolo di un processo storico lungo decenni. Fin dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la conseguente Nakba – l’esodo forzato di centinaia di migliaia di palestinesi – le politiche di espropriazione e di espulsione sono state una costante della politica israeliana. Cook sottolinea come le recenti dichiarazioni di Donald Trump e le sue azioni non abbiano introdotto nulla di realmente nuovo, se non una maggiore trasparenza nel linguaggio con cui vengono giustificate tali politiche.
Netanyahu ha lanciato il suo attacco con due possibili obiettivi: la pulizia etnica o il genocidio. Per 15 mesi il principale alleato di Israele nel genocidio è stato Joe Biden, mentre ora nel processo di espulsione forzata è intervenuto Trump. Biden ha fornito bombe da 2.000 libbre a Israele, giustificando i bombardamenti come “autodifesa”. Trump ha portato il discorso ancora oltre, promettendo la fornitura della MOAB – un ordigno da 11 tonnellate – per incentivare l’esodo forzato della popolazione palestinese.
Cook mette dunque in guardia dal considerare la retorica di Trump o Biden come il fattore determinante per comprenderne le politiche. Le politiche di espropriazione, isolamento e controllo di Gaza non derivano da scelte isolate o recenti, ma da un progetto sistemico e strutturale. Ogni presidente americano, da George W. Bush a Barack Obama, ha sostenuto la politica di esclusione dei palestinesi, cercando di convincere l’Egitto a ospitare i rifugiati di Gaza nel Sinai.
Il ruolo della retorica: da Biden a Trump
La differenza tra Biden e Trump non è nelle azioni, ma nel modo in cui vengono presentate. Biden ha mantenuto una narrativa ipocrita: ha parlato di "lavorare per la pace" mentre armava Israele e permetteva la distruzione di Gaza. Trump, invece, si è limitato a rendere esplicita la strategia già in atto: Gaza deve essere "ripulita" per far spazio a nuovi investimenti immobiliari.
La retorica politica gioca un ruolo centrale. Biden ha definito la distruzione del 70% degli edifici di Gaza "autodifesa". Trump ha parlato del 30% rimanente come di un territorio destinato a diventare un "sito di demolizione". Biden ha affermato di lavorare per una tregua, mentre incoraggiava Israele a proseguire gli attacchi. Trump ha dichiarato di aver negoziato un cessate il fuoco, ma ha permesso che Israele continuasse a impedire l’ingresso di aiuti e a mantenere i palestinesi bloccati in una prigione a cielo aperto.
Il vero obiettivo di Netanyahu, come riportato dal quotidiano israeliano Haaretz, era far fallire il cessate il fuoco prima che si raggiungesse la seconda fase dell’accordo, ovvero il ritiro delle truppe israeliane e la ricostruzione di Gaza. Hamas ha accettato un rilascio graduale degli ostaggi per guadagnare tempo, sapendo che Israele avrebbe ripreso i bombardamenti appena avesse avuto la possibilità.
La continuità delle politiche di dispossesso
Cook evidenzia che l’attuale crisi deve essere vista come parte di un progetto più ampio che risale almeno agli anni del Mandato britannico. L’espropriazione della terra palestinese e il controllo militare sono stati strumenti chiave per garantire l’esclusione e la segregazione della popolazione locale. La "pulizia etnica" di Gaza non è dunque un’invenzione di Trump, ma una strategia consolidata che ha radici storiche profonde.
Negli anni 2000, Israele aveva sviluppato il “Greater Gaza Plan”, un progetto per ridurre la popolazione della Striscia attraverso assedi, blocchi economici e bombardamenti periodici, creando una situazione così insostenibile da costringere i palestinesi alla fuga. Questo piano ha trovato terreno fertile sotto ogni amministrazione americana, con Obama che ha tentato di convincere l’Egitto ad accogliere i rifugiati e con Biden che ha fornito armi a Israele per intensificare gli attacchi.
Trump e il business della pulizia etnica
La novità introdotta da Trump non è una nuova politica, ma la sua esplicita commercializzazione. Secondo l’ex presidente, Gaza rappresenta un'opportunità immobiliare che va "ripulita" per essere valorizzata. Jared Kushner, suo genero e principale architetto delle sue strategie in Medio Oriente, aveva già parlato di piani simili nel 2018, quando propose un’area industriale nel Sinai per ospitare i rifugiati palestinesi.
Trump non ha fatto altro che riprendere questi piani e renderli espliciti. Tuttavia, i suoi alleati europei sono in imbarazzo: per decenni hanno sostenuto Israele giustificando la guerra con la "sicurezza" e la "lotta al terrorismo". Ora devono spiegare perché stanno sostenendo una pulizia etnica apertamente dichiarata.
Anche i media occidentali hanno tentato di mitigare il linguaggio. La BBC parla di "ricollocazione" e "spostamento" della popolazione di Gaza. Il New York Times descrive il piano come un "progetto di sviluppo". Reuters usa il termine "movimento forzato". In realtà, si tratta di pulizia etnica.
La resistenza dell’Egitto e della Giordania
Se il piano di espulsione di Trump e Netanyahu non si è ancora concretizzato, è grazie alla resistenza dei paesi arabi vicini. L’Egitto di al-Sisi ha dichiarato che non accetterà mai di trasformare il Sinai in un campo profughi permanente per i palestinesi. Il re di Giordania Abdullah II ha addirittura minacciato di dichiarare guerra a Israele se il piano venisse attuato.
L’Arabia Saudita ha anch’essa preso le distanze, temendo che il trasferimento forzato della popolazione palestinese destabilizzi l’intera regione. Questo rifiuto ha reso più difficile per Trump portare avanti il suo piano, tanto che la sua amministrazione ha iniziato a parlare di una "controproposta araba" per la ricostruzione di Gaza.
Una pausa temporanea, ma il piano resta
Israele ha recentemente aumentato l’invio di aiuti a Gaza e ha ridimensionato le richieste sul rilascio degli ostaggi. Tuttavia, come sottolinea Cook, questa è solo una pausa temporanea. Il progetto di pulizia etnica di Gaza non è stato abbandonato, ma rimandato a un momento più opportuno. La strategia di Israele e degli Stati Uniti rimane la stessa: trasformare Gaza in un'area disabitata o almeno ridurre drasticamente la presenza palestinese.
In chiusura Cook ribadisce che attribuire tutto a Trump rischia di semplificare eccessivamente la questione. Le politiche di apartheid e di segregazione sono state sostenute da ogni amministrazione americana, indipendentemente dall’ideologia del presidente in carica. La tragedia di Gaza non è il risultato della retorica di un singolo leader, ma di una lunga storia di colonialismo, espropriazione e pulizia etnica sistematica. Cambiare un presidente non cambierà la situazione, se non si affrontano le cause strutturali che hanno reso possibile questa realtà. In definitiva, il problema non è solo Trump, Biden o Netanyahu, ma un’intera politica che per decenni ha normalizzato l’oppressione del popolo palestinese.