L'articolo di Ezio Mauro su la Repubblica del 22 dicembre 2024 sostiene apertamente che “noi occidentali” siamo in guerra: rappresentiamo il "secondo fronte" della guerra Ucraina, perché l’invasione russa di uno Stato sovrano ha travolto “i principi e i valori in cui diciamo di credere”. Questo ci chiama in causa non soltanto sul piano politico, ma anche su quello morale, nel senso dei doveri che abbiamo verso la nostra storia e la nostra identità di Paese.
Ma, lamenta Mauro, questa identità, specie in Italia, si è spezzata nel corso della guerra, parallelamente a un progressivo logoramento dell’opinione pubblica occidentale: mentre la paura e l’insicurezza si diffondono, la nostra società si ritrova divisa, anziché compattarsi di fronte alla sfida dei carri armati di Mosca.
La colpa, naturalmente, sarebbe dei “pacifisti”: la rivendicazione della pace a tutti i costi, infatti (una “pace avvelenata”) rischierebbe di generare ulteriori divisioni, trasformandosi in uno slogan vuoto, che ognuno riempie con significati parziali e contraddittori, senza considerare le conseguenze di un accordo che legittimerebbe conquiste ottenute con la forza.
In questo quadro Mauro costruisce una vera e propria caricatura del “fronte" della pace, identificato con i simpatizzanti di Putin.
Ne farebbero parte i nostalgici dell’Urss che continuano a vedere in Mosca la loro capitale fissa; i vedovi del comunismo, che continuano come un tempo ad assecondare le pretese imperiali del Cremlino; gli ipocriti contestatori che vivono in Occidente ma “rifiutano la sua cultura mentre sfruttano le sue libertà”; gli avversari degli Stati Uniti, pervasi da un eterno sentimento antiamericano; e infine i nemici della democrazia che vedono in questa non un deposito di valori e una garanzia per i diritti, ma al contrario una grande mistificazione dei poteri forti, screditati dai continui tradimenti delle loro stesse promesse.
Questo fronte variegato esprimerebbe in realtà un “coro unanime” che, dopo aver formalmente condannato l’invasione russa, ha rovesciato le responsabilità, accanendosi contro Zelensky e la resistenza ucraina, ritenenendoli responsabili dell’allungamento del conflitto, delle morti, della distruzione di città e della crescente ansia che grava sull’Europa. Gli ucraini, in altre parole, sarebbero colpevoli di difendersi, ignorando il divario militare tra Kiev e Mosca e alimentando una guerra “inutile” mentre dovrebbero “accettare la mutilazione del loro Paese anche se la resa è una capitolazione davanti al sopruso che diventa sovrano”.
Questa, chiosa Muro: “È l’ultima espressione, estrema, della realpolitik, il mal sottile dell’Occidente” (un’allusione feroce alla tubercolosi, i cui malati, fonte di contagio, venivano un tempo discriminati, isolati e colpevolizzati).
Il passaggio centrale del suo discorso è che
“Secondo questa logica riduzionista non ci sono ideali per cui valga la pena vivere, rischiando anche di morire per difenderli, non ci sono valori e principi di convivenza che formano il deposito morale e spirituale di una nazione, perché di fronte all’evidenza della forza dispiegata ed egemone non c’è più distinzione tra ciò che è giusto e l’ingiusto, dunque la generazione dei padri che sta in trincea può solo chinare il capo e gettare le armi, svendendo il futuro dei suoi figli”.
Così, dopo aver spensieratamente proclamato che devono pur esserci ideali (occidentali, democratici) per cui valga la pena morire, il nostro sistema per bene il pacifismo d’ogni risma identificandolo col nichilismo: “il piccolo cabotaggio di una politica avara ed egoista, rivoluzionaria a parole e post-democratica nei fatti, che non ha più valori e nemmeno insegne, perché il nichilismo non ha un simbolo: e per questo invoca la bandiera bianca”.
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Sia consentito di commentare in calce che una panoramica sintetica dei principali media internazionali (mainstream, non ‘rivoluzionari’) mostra diverse chiavi di lettura circa le origini e le responsabilità della guerra in Ucraina – ben lungi dall’impostazione manichea e caricaturale del pezzo di Mauro. Vi si trovano le opinioni di chi vede un’aggressione unilaterale da parte di Mosca, di chi punta il dito contro l’espansionismo atlantico, di chi sottolinea le radici culturali dell’ideologia neo-imperiale russa e di chi richiama tensioni locali di lunga data, fomentate anche da interventi occidentali.
Certo la tesi più accreditata, spesso preferita da BBC, Reuters, The Washington Post e The Economist, sostiene che l’invasione russa del febbraio 2022 sarebbe stata “non provocata” e priva di giustificazioni giuridiche, con l’obiettivo di minare l’indipendenza di Kiev e ricostituire una sfera di influenza post-sovietica.
Ma si incontra anche l'opposta prospettiva, sostenuta tra gli altri dall’influente politologo John Mearsheimer della University of Chicago (le cui numerose pubblicazioni e conferenze sono spesso citate in articoli del New York Times). Questa attribuisce gran parte della responsabilità all’Occidente e alla sua scelta di estendere la sfera d’influenza della NATO fino ai confini russi—allarmando Mosca e inducendola a un’azione preventiva per difendere i propri interessi strategici.
In parallelo, sulla stampa internazionale si trovano non di rado riferimenti ad analisi accademiche di medio-lungo periodo – prodotte in prestigiose università e facilmente reperibili attraverso portali specializzati come Semantic Scholar – che si concentrano sulle dinamiche interne all’Ucraina e sugli eventi successivi al 2013-2014. Secondo questi studi (non pamphlet polemici) le rivolte di Euromaidan, l’annessione russa della Crimea e il conflitto nel Donbas – fomentati anche da “interventi esterni” (leggi: occidentali) – avrebbero scatenato tensioni etniche e rivendicazioni territoriali innescando un’escalation che è poi culminata nell’ “operazione militare speciale” del febbraio 2022.
Infine, storici come Timothy Snyder di Yale, spesso ospitato dal New York Times, mettono in luce le radici culturali dell’ “imperialismo ideologico” russo: Putin e l’élite al potere in Russia considererebbero sinceramente l’Ucraina parte integrante della “Grande Russia,” negandone la piena sovranità in virtù della storica “unione” del popolo russo-ucraino. Ciò legittima, ai loro occhi, l’uso della forza per difendere l’integrità di questa realtà geopolitica e culturale.
In sintesi, sulla grande stampa in giro per il mondo si incontrano pareri diversi in funzione non della “moralità politica” dell’analisi, ma delle prospettive geopolitiche, storiche e strategiche liberamente assunte da ciascun analista. Sarebbe possibile chiedere alla grande stampa italiana di imparare questa lezione di pluralismo, anzichè lanciare appelli sempre più frequenti alla guerra giusta (oggi si chiama “pace giusta”) in nome di un presunto conflitto valoriale per cui i nostri ragazzi dovrebbero essere “pronti alla morte”?
Immagine: Un fotogramma di “Pronti a morire” (The Quick and the Dead) di Sam Raimi, 1995.