In «Le véritable ennemi de la droite nationaliste et extractiviste incarnée par les trumpistes est la gauche sociale-démocrate mondiale» (Le Monde, 13 dicembre 2025) Thomas Piketty propone una chiave di lettura netta e controintuitiva del nuovo ciclo politico aperto dal ritorno di Donald Trump. Il punto centrale non è la brutalità del linguaggio, né l’ennesima escalation di provocazioni nazionaliste. Il punto, scrive Piketty, è capire chi sia davvero il nemico politico della destra trumpista. E la risposta non è quella più ovvia.
Il 2025, osserva l’economista francese, ha prodotto uno “shock Trump” di portata globale. Non una semplice alternanza elettorale, ma l’irruzione esplicita di una destra che rivendica senza più filtri una visione del mondo nazionalista, autoritaria ed estrattivista. Una destra che considera legittimo l’uso della forza, disprezza i vincoli multilaterali e riduce lo Stato a strumento di conquista e di predazione. Nulla di improvvisato, avverte Piketty: questa brutalità è coerente con un progetto ideologico di lungo periodo.
Per comprenderlo, bisogna spostare lo sguardo dalle sparate presidenziali ai testi che strutturano l’universo trumpista. In particolare al Project 2025 [scaricatelo qui], il documento elaborato dalla Heritage Foundation e da una vasta rete di think tank conservatori. Non un manifesto vago, ma un piano di governo dettagliato, tecnico, minuzioso, che prevede la presa diretta dell’apparato statale, la neutralizzazione dei contropoteri, la subordinazione dell’amministrazione federale all’esecutivo e lo smantellamento sistematico delle politiche sociali e ambientali.
Secondo Piketty, ciò che colpisce è la fedeltà con cui questo programma è stato rapidamente tradotto in atti di governo. Il trumpismo non è caos: è una strategia. E al centro di questa strategia c’è una concezione estrattivista dello Stato e della società. Estrattivismo non solo come sfruttamento intensivo delle risorse naturali, ma come modello complessivo: compressione dei diritti del lavoro, deregolamentazione finanziaria, tagli fiscali per i più ricchi, privatizzazione dei beni comuni. Lo Stato non corregge il mercato, lo protegge nella sua funzione predatoria.
È a questo punto che Piketty rovescia la narrazione dominante. Il vero nemico dei trumpisti, sostiene, non è il liberalismo centrista e globalista. Anzi, nei documenti strategici della destra americana i liberali appaiono come avversari deboli, spesso utili, incapaci di offrire una risposta politica alla disindustrializzazione, alle disuguaglianze, alla crisi sociale. Facili da battere, e in fondo innocui.
Il bersaglio autentico è un altro: la sinistra social-democratica globale. Quella che propone redistribuzione della ricchezza, tassazione progressiva dei grandi patrimoni, cooperazione fiscale internazionale, regolazione dei mercati finanziari, investimenti pubblici e politiche climatiche ambiziose. Una sinistra che i trumpisti amano caricaturizzare come marxista o rivoluzionaria, ma che in realtà rappresenta proprio ciò che li spaventa di più: un’alternativa riformista, democratica e potenzialmente maggioritaria.
La paura, insiste Piketty, è soprattutto materiale. Le proposte di tassazione dei super-ricchi, di lotta ai paradisi fiscali, di coordinamento fiscale internazionale mettono in discussione la concentrazione estrema della ricchezza accumulata negli ultimi decenni. Non è una disputa ideologica astratta, ma un conflitto diretto sugli interessi economici che sorreggono il trumpismo.
A questo si aggiunge un fattore generazionale. Negli Stati Uniti, figure come Bernie Sanders e la nuova sinistra progressista di Alexandria Ocasio-Cortez e Zohran Mamdani raccolgono consenso crescente tra i giovani, stanchi di precarietà, disuguaglianze e immobilismo climatico. È questa possibile saldatura tra questione sociale e questione ambientale a rappresentare, per Piketty, la vera minaccia percepita dalla destra nazionalista.
La conclusione allarga definitivamente il campo. Lo scontro non è americano, ma globale. Le destre nazionaliste cooperano tra loro, condividono linguaggi, strategie e nemici comuni. Per questo, argomenta Piketty, anche la risposta non può essere puramente nazionale. Serve una socialdemocrazia capace di pensarsi su scala mondiale, di coordinare politiche fiscali, sociali e ambientali oltre i confini degli Stati.
Chiamare correttamente il conflitto è il primo passo. Non globalisti contro sovranisti, né élite contro popolo in senso generico. Ma una destra estrattivista che difende la concentrazione del potere e della ricchezza contro una sinistra social-democratica che punta a redistribuzione, cooperazione e democrazia sostanziale. È lì, suggerisce Piketty, che si gioca la partita decisiva dei prossimi anni.