1. Il fascismo storico, spiega Urbinati, si fonda su relazioni sociali di disuguaglianza e gerarchia: al vertice le élite che comandano, in basso un popolo subordinato ma plaudente. L’obiettivo è disciplinare, dominare e addomesticare la società, scoraggiando gli individui da qualunque forma di opposizione—inducendoli a conformarsi.
Durante il Ventennio, questo si realizzò con uno “Stato sociale autoritario” articolato su due canali. Il primo, sociale, era basato su assistenzialismo, paternalismo e clientelismo: lo Stato “regalava la Befana ai poveri” e prometteva lavoro in cambio di fedeltà. Il secondo, autoritario, si fondava sulla repressione poliziesca con l’appoggio di milizie di partito, con l’obiettivo di “sradicare la pratica dell’associazione politica e sindacale, le lotte per la giustizia sociale e la richiesta di mettere fine a relazioni padronali servili."
2. Anche oggi la destra mira a una società gerarchica improntata alla disuguaglianza, con l’intento di disciplinarla e dominarla eliminando il conflitto sociale. Le tattiche, però, sono mutate:
“Oggi, diversamente da allora, si può perseguire tutto questo con uno stato minimo, senza uno stato che soffoca l’intera società per soffocarne alcuni”.
Apparentemente meno invasivo, questo stato minimo può essere altrettanto autoritario: non necessita di milizie su larga scala, ma dispone di meccanismi di controllo più sottili che possono, in modo altrettanto efficace, dissuadere i cittadini dall’associarsi e protestare.
Secondo Urbinati, il principale strumento di controllo sociale in grado di sostituire la repressione poliziesca è “l’ideologia social-darwinista.” Questa costruisce una società premeata di logiche competitive disuguaglianze normalizzate, finendo per soffocare il dissenso e imporre conformismo.
3. Alla base del social-darwinismo c’èil principio del merito individuale, presentato come “una dote naturale che arma i singoli alla lotta per la vita”. Esso opera per giustificare le disuguaglianze e legittimare le gerarchie sociali: chi sta in alto dovrebbe il proprio successo ai propri meriti, mentre chi rimane in basso sarebbe responsabile dei propri “demeriti”. Non c’è nessuna consapevolezza che le diverse condizioni di partenza possano pesare più dei talenti individuali.
Questo principio alimenta una mentalità ‘naturalmente’ competitiva, con l’eccellenza come cifra del valore personale, misurato dalla capacità di accumulare risorse materiali e stabilire connessioni personali utili alla scalata nella gerarchia sociale. Così, legittimando la superiorità di chi sta in alto, la pressione a conformarsi sostituisce in parte la coercizione esplicita.
4. In questo contesto emerge la nuova “religione del lavoro”, una visione per cui il lavoro non emancipa l’uomo né unisce i lavoratori nella lotta allo sfruttamento, ma rende “accettabile” la gerarchia: “c’è chi comanda e chi è comandato”. Tale accettazione si basa sul mito della carriera, che promuove una competizione individuale per scalare i ranghi, avvicinandosi ai livelli superiori e distanziandosi da chi rimane in basso, i lavoratori manuali e soprattutto gli immigrati. L’ostilità popolare verso i migranti si spiega infatti con il bisogno di mantenere “qualcuno” più in basso, confermando la propria superiorità relativa. Chi ha successo guarda con commiserazione chi resta indietro, temendo di ricaderci, mentre si sente in debito verso chi sta sopra e gli ha permesso di salire.
Al centro di questa nuova “religione” c’è la “Trinità liberista”: lavoro, obbedienza, soldi. Il lavoro obbediente garantisce i consumi, l’apprezzamento di chi sta in alto e una posizione più elevata nella gerarchia sociale. Il lavoro disobbediente e il conflitto sociale, invece, minacciano i privilegi individuali, sempre precari perche’ legati non a un sistema di diritti, ma alle relazioni gerarchiche di dominio.
Per reggere, questo sistema necessita non di repressione brutale, ma della disgregazione sociale e della rinuncia dei singoli ad associarsi per difendere i diritti collettivi. Invece di unirsi e lottare, i singoli si affidano ai propri meriti individuali e alle proprie relazioni personali. Chi non si adegua resta isolato, marginalizzato, mentre chi entra nel gioco riceve conferme e vantaggi che rafforzano gerarchie e disuguaglianze.
5. In definitiva, quando la società interiorizza le logiche social-darwiniste, la coercizione esplicita serve meno. Servono piuttosto la frammentazione del corpo sociale e l’individualismo di massa, effetto di decenni di liberismo e di un’innovazione tecnologica che “connette solitudini” e scoraggia l’associazionismo. È così che, con la vittoria del pensiero unico social-darwinista, si afferma il “fascismo di oggi”.
Immagine: "Darwinismo sociale in stile futurista." Creata con la collaborazione di DALL-E