La vittoria di Donald Trump nel 2024 ha sorpreso molti per il carattere multietnico e multirazziale della sua coalizione. Capitalizzando sul malcontento generato dalla globalizzazione e sulla frustrazione verso le élite progressiste al potere, Trump ha costruito un messaggio populista capace di attrarre non solo la classe operaia bianca del Midwest, ma anche una significativa porzione del voto latino e afroamericano. Questo risultato si è concretizzato nonostante l’appello identitario simbolicamente rappresentato dalla pelle scura della sua avversaria, Kamala Harris, e dal sostegno del primo presidente afroamericano, Barack Obama.
Trump ha consolidato una forma di universalismo populista, incentrata sulle esigenze economiche e sulla rivolta contro le élite. Con questa strategia, ha eroso sia il consenso universalistico basato sul lavoro, eredità dell’epoca rooseveltiana, sia il sostegno identitario fondato su etnia, genere e orientamento sessuale, pilastri del Partito Democratico dagli anni ’60 in poi. Per comprendere questa dinamica, è necessario ripercorrere per grandi linee oltre un secolo di storia politica americana.
FDR: una coalizione universalistica basata sul lavoro
Fino agli anni ’30, la politica americana era stata dominata da una logica etnica. Le political machines urbane, come la leggendaria Tammany Hall di New York, mobilitavano il voto degli immigrati italiani, irlandesi ebrei, ecc., offrendo protezioni clientelari in cambio di lealtà politica. Questa frammentazione impediva l’emergere di alleanze basate su interessi economici condivisi e rafforzava le identità politiche focalizzate sulla comunità d’origine piuttosto che sulla classe sociale.
La Grande Depressione offrì a Franklin D. Roosevelt l’opportunità di rompere questo schema. Attraverso il New Deal, Roosevelt costruì una coalizione basata sul lavoro. Immigrati, lavoratori bianchi urbani e, in parte, afroamericani del Nord furono uniti da politiche che miglioravano la sicurezza economica e rafforzavano i diritti del lavoro: il Wagner Act garantì le libertà sindacali, mentre il Social Security Act introdusse la previdenza sociale universale.
Nel condurre la sua battaglia trasformativa, Roosevelt criticò apertamente le élite economiche e finanziarie, accusandole di perseguire i propri profitti a scapito del benessere collettivo. "I welcome their hatred" (Il loro odio sia il benevenuto), dichiarò nel celebre discorso del 1936 a Madison Square Garden, presentandosi come difensore del "common man" contro i privilegi dei ricchi. Il New Deal rappresentò un passaggio unico nella storia americana, un “momento” europeo e socialdemocratico, in cui lo Stato federale divenne garante dell’uguaglianza economica e della coesione sociale.
Il ritorno della frammentazione identitaria
Negli anni ’60, la coalizione rooseveltiana iniziò a frammentarsi. In un periodo di crescente benessere economico, le lotte per i diritti civili e il riconoscimento delle identità etniche spinsero i Democratici a concentrarsi sulle politiche identitarie. La Great Society di Lyndon Johnson, con il Civil Rights Act (1964) e il Voting Rights Act (1965), segnò una svolta per le minoranze etniche, aprendo la strada negli anni ’70 e ’80 a movimenti femministi e altre battaglie per i diritti.
Entro la fine del secolo, il discorso progressista si era ulteriormente evoluto, adottando la politica culturale del politically correct per regolare linguaggi e comportamenti percepiti come offensivi verso minoranze etniche, di genere e sessuali. Questo paradigma, diventato col tempo sempre più rigido, è culminato nella cultura woke, spesso incentrata sulle agende identitarie delle minoranze più che sui problemi economici delle classi lavoratrici.
Questo spostamento ha alienato una parte significativa della classe lavoratrice bianca, soprattutto nel Sud e nel Midwest, che si è sentita trascurata economicamente e culturalmente attaccata dalle élite progressiste. La globalizzazione e la deindustrializzazione, devastando le tradizionali basi industriali, hanno aggravato ulteriormente il distacco tra i Democratici e la base popolare e di classe lasciata loro in eredità da FDR.
Trump: una coalizione universalistica basata sul popolo
Donald Trump ha intercettato questo malcontento, costruendo una coalizione che trascende le tradizionali linee etniche, focalizzandosi su temi economici e culturali.
Il suo messaggio populista si incentra su una feroce critica all’establishment politico, accusato di aver tradito gli interessi dei lavoratori. Con lo slogan “Make America Great Again”, Trump ha mescolato protezionismo economico, sovranismo nazionale e controrivoluzioe culturale, mobilitando le classi lavoratrici emarginate dalla globalizzazione – in maggioranza bianche – con la promessa di rilanciare l’industria manifatturiera americana e imporre dazi sulle importazioni.
Ma l’appello di Trump ha attratto anche quasi l metà dell'elettorato ispanico, conquistato dalla sua enfasi sulla creazione di posti di lavoro e sulla sicurezza economica. Allo stesso modo, un quarto degli elettori afroamericani ha accolto le sue critiche ai Democratici, accusati di non aver mantenuto le promesse fatte alle comunità nere urbane. In entrambi i casi, i Democratici sono stati percepiti come elitari e più orientati verso le politiche identitarie che verso le necessità economiche del popolo.
Parallelamente, Trump ha attaccato la presunta egemonia culturale progressista del politically correct e della cultura woke, accusandola di frammentare la società americana e di imporre una nuova ortodossia culturale. Nel suo percorso, ha fatto leva su una rete di teorie del complotto, inclusa QAnon, che dipinge un’élite globale di pedofili e satanisti, controllori occulti del mondo. Ha amplificato il tema dell’immigrazione irregolare, descrivendola come una minaccia economica, culturale e persino esistenziale per gli Stati Uniti, arrivando a sposare la narrativa della “sostituzione etnica.” Inoltre, ha criticato istituzioni internazionali come l’ONU, l’OMS, la Corte Penale e la Corte di Giustizia internazionali, accusandole di minare la sovranità americana.
Questa strategia polarizzante, che contrappone “noi” e “loro,” il popolo contro le élite, può essere descritta come un tentativo di “unire dividendo.” Essa ha rafforzato il messaggio di Trump presso un elettorato trasversale, unito dal malcontento e dalla percezione di un’America “autentica” minacciata da forze oscure, interne e internazionali, dalla crisi economica e dal totalitarismo ideologico delle élite progressiste e globaliste.
Conclusione
Roosevelt e Trump rappresentano risposte opposte, ma parallele, alle crisi della loro epoca. Entrambi hanno sfidato la tendenza della politica americana alla frammentazione identitaria, costruendo coalizioni multietniche e trasversali. Roosevelt lo fece “da sinistra”, articolando un universalismo sociale, solidale e redistributivo, guidato dallo Stato, contrapponendo il working man alle élite economiche del laissez-faire. Trump, invece, lo fa “da destra”, con un universalismo populista, di carattere individualista, reazionario e antistatalista, che polarizza il confronto tra il “popolo dimenticato” e il “sistema” dominato dalle élite politiche progressiste.
Come Roosevelt, Trump sembra destinato a plasmare il futuro del paese per molti anni a venire.
Immagini:
FDR: Leggboi, self-submission (reddit.com)
Trump: Neil Davies (behance.net)