Le prime analisi convergono nell'individuare un "pacifismo cinico" che non solo distorce il dibattito sulla pace e delegittima i movimenti autenticamente pacifisti, ma rischia anche di indebolire la credibilità degli Stati Uniti sulla scena internazionale. La questione centrale rimane la necessità di una leadership che si impegni realmente per la pace, non come slogan politico, ma come obiettivo strategico e sostenibile.
Il "pacifismo cinico"
Un articolo di Matt Duss pubblicato sullo storico magazine progressista The Nation, esamina come Trump abbia abilmente sfruttato il crescente malcontento dell’opinione pubblica verso le "guerre senza fine" in cui gli USA sono coinvolti, affermando di voler porre fine all’interventismo americano. Tuttavia il passato politico di Trump e le decisioni prese durante il precedente mandato presidenziale raccontano una storia diversa. Si assistette allora a un aumento delle tensioni con l’Iran, a un incremento nell’uso dei droni e a una politica estera fortemente condizionata da interessi personali e transazioni economiche. Questa dissonanza, secondo Duss, svela il "pacifismo cinico" di Trump: uno strumento propagandistico per guadagnare consenso elettorale senza alcun reale impegno per la pace.
Da imperatore a 'protettore a pagamento'
Un’analisi del Council on Foreign Relations (CFR) approfondisce ulteriormente questa complessità. Secondo il CFR, Trump non è propriamente un "isolazionista", ma piuttosto un protezionista e un transazionalista. La sua retorica critica verso alleanze storiche come la NATO o l’accordo con la Corea del Sud non deriva da un desiderio di disimpegno geopolitico, ma dalla percezione che gli alleati non contribuiscano abbastanza in termini economici. Trump non auspica un ritiro globale più marcato degli Stati Uniti, ma intende piuttosto condizionare la presenza internazionale degli USA ai "benefici tangibili" che può trarne, spesso misurati in termini economici e di prestigio personale. Questo atteggiamento è evidente nella sua enfasi sulle tariffe commerciali e sul ruolo degli Stati Uniti come "protettore a pagamento" per i suoi alleati.
Narrativa populista e linguaggio bellicoso
Un altro contributo interessante proviene da un’analisi di Politifact, una organizzazione di fact-checking indipendente affiliata alla scuola di giornalismo Poynter Institute. Il report sottolinea come Trump abbia utilizzato il malcontento popolare verso le guerre in atto per costruire una narrativa populista, pur rimanendo profondamente legato a una mentalità interventista, come dimostrato dal suo storico linguaggio bellicoso nei confronti di stati come la Cina e l’Iran. Questo contrasto tra parole e azioni evidenzia una strategia mirata non a promuovere la pace, ma a conquistare elettori scettici verso l’interventismo americano senza allontanare la base più militarista.
Dentro il 'pacifismo cinico' di Donald Trump
Alcuni giornali democratici e think-thank indipendenti cominciano ad analizzare seriamente la vittoria di Trump. Uno degli aspetti messi in luce è il modo in cui è stato utilizzato il discorso anti-guerra per fini elettorali.