L’incontro tra Donald Trump e Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca - scrive Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera - rappresenta un evento senza molti precedenti nella storia recente. Il tono del colloquio, segnato da pressioni e minacce, richiama alcuni momenti drammatici del passato, come le imposizioni di Hitler su Austria e Ungheria o l’ultimatum di Breznev ad Alexander Dubček nel 1968. Episodi in cui leader autoritari hanno costretto i loro interlocutori a cedere a richieste inaccettabili, sacrificando la libertà dei loro Paesi.
Trump ha costruito il suo mandato con un linguaggio aggressivo, caratterizzato da prepotenza e disprezzo. Il suo progetto politico appare chiaro: all’interno, una democrazia priva di liberalismo, senza spazi per le élite; all’esterno, un imperialismo che rinnega il tradizionale soft power americano. Questa svolta non è solo una minaccia per l’Europa, ma segna una frattura storica per gli stessi Stati Uniti.
La democrazia liberale ha sempre mantenuto un equilibrio tra due principi fondamentali: da un lato il suffragio universale, espressione della volontà popolare; dall’altro i diritti inviolabili dell’individuo, garanzia contro il dominio della maggioranza. Questo sistema ha consentito il funzionamento delle istituzioni e la formazione di élite competenti, essenziali per il progresso sociale e politico. Trump, invece, propone un modello in cui conta solo chi vince le elezioni, senza alcun rispetto per le competenze o per la separazione dei poteri. Una visione che esalta il ruolo del "Grande Demagogo", il leader unico che si presenta come il solo interprete della volontà popolare.
Il problema non è solo interno agli Stati Uniti. La politica di Trump sta ridefinendo i rapporti di forza a livello globale. Attualmente esistono tre grandi potenze geopolitiche: Stati Uniti, Russia e Cina. Ma solo gli USA possono vantare un vero e proprio impero mondiale, reso tale dal legame con l’Europa. Questo rapporto non è soltanto strategico, ma anche culturale ed economico: gli Stati Uniti dominano il mondo perché esercitano la loro influenza su entrambi i lati dell’Atlantico.
L’Europa ha sempre rappresentato un punto di forza per il potere americano. Senza il supporto europeo, gli Stati Uniti non avrebbero potuto mantenere la loro egemonia globale, né sviluppare strumenti chiave come l’arma nucleare. Inoltre, il controllo dell’Atlantico e del Mediterraneo ha garantito agli USA una posizione dominante nel commercio mondiale e nei conflitti geopolitici, in particolare nella gestione delle tensioni tra il mondo islamico e l’Occidente.
Ma il vero punto di forza dell’America non è stato solo il predominio militare o economico, bensì il soft power: la capacità di influenzare il resto del mondo attraverso cultura, valori, narrazioni e immaginario collettivo. Gli Stati Uniti hanno modellato il pensiero e le aspirazioni di intere generazioni grazie alla musica, al cinema, alle università e ai media. Questo è il vero cuore del loro potere globale.
Trump sembra intenzionato a distruggere tutto questo. La sua visione di un’America isolata, priva di alleati e governata da un’élite improvvisata e incompetente, mette a rischio la stessa essenza dell’impero americano. Senza il legame con l’Europa, gli Stati Uniti potrebbero perdere la loro centralità mondiale, lasciando spazio a potenze emergenti come la Cina e la Russia.
Alla fine, il rischio più grande è che l’America rinunci al suo ruolo di guida globale, trasformandosi in una potenza chiusa e autoritaria. Chi ha sempre creduto nel modello democratico americano, chi ha guardato agli Stati Uniti come a un faro di libertà e progresso, oggi si trova costretto a interrogarsi: è ancora possibile dire "God bless America", se questa non è più l’America che conoscevamo?