Il volontariato nelle carceri italiane - scrive Paolo Foschini su il Corriere della Sera - è una realtà tanto essenziale quanto poco documentata. Se da un lato i numeri della detenzione sono chiari – 190 carceri, quasi 62.000 detenuti, 31.000 agenti di polizia penitenziaria e solo 1.000 educatori – dall’altro il numero dei volontari resta incerto. Nel 2019, secondo l’Osservatorio Antigone, si è raggiunto un record di 19.511 volontari, ma la pandemia ha quasi dimezzato la loro presenza. Oggi si stima un volontario ogni 16 detenuti.
I volontari svolgono un ruolo fondamentale nelle attività di recupero e inclusione sociale, spesso supplendo alle carenze istituzionali. L’80% delle attività sociali e formative nelle carceri è gestito dal Terzo settore, e solo 8 centesimi su 150 euro al giorno spesi dallo Stato per ogni detenuto sono destinati al suo recupero.
Nonostante il loro contributo, il volontariato penitenziario non ha un riconoscimento ufficiale. Non esiste un registro nazionale, e ogni istituto gestisce autonomamente i permessi d’ingresso. Secondo Michele Miravalle di Antigone, si tratta di un tradimento della riforma del 1985, che assegnava ai volontari un ruolo di collaborazione, non di supplenza.
Anche le associazioni che coordinano il volontariato mancano di una mappatura aggiornata. La Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia (Cnvg), in collaborazione con Csvnet, ha siglato un protocollo nel 2023, ma i dati restano frammentari.
I volontari chiedono più riconoscimento e dialogo con le istituzioni. Un sondaggio del Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna ha raccolto le loro richieste: maggiore comunicazione, coordinamento e partecipazione alle decisioni. Il volontariato non vuole essere una ruota di scorta, ma un interlocutore riconosciuto nel sistema penitenziario.