Versione abbreviata di Ilan Pappé, “No, Israele non è una democrazia” (estratto da: Dieci miti su Israele, Verso Books 2020) e pubblicato su assopacepalestina.org
Lo storico Ilan Pappé smonta il mito della democrazia israeliana. Secondo Pappé, questa narrazione ignora le violazioni sistematiche dei diritti dei palestinesi fin dalla fondazione dello Stato di Israele. Già prima del 1967, i palestinesi che vivevano all’interno dei confini israeliani erano soggetti a un regime militare che negava loro diritti fondamentali. Espulsioni forzate, massacri e distruzione di villaggi, come quello di Kafr Qasim nel 1956, sono esempi di violenze sistematiche subite dalla popolazione palestinese.
La separazione tra un “prima” e un “dopo” il 1967, che suggerisce che l’oppressione palestinese sia iniziata solo con l'occupazione dei territori palestinesi, è una narrazione errata. Pappé sostiene che la discriminazione e la violenza fossero già radicate nel sistema israeliano sin dalla sua creazione. Fin dall’inizio, Israele cercò di ridurre la presenza palestinese nei territori recentemente conquistati, utilizzando metodi brutali, tra cui espulsioni sotto pretesti militari, evidenziando così una politica intenzionale di pulizia etnica.
La discriminazione contro i palestinesi si estendeva anche a livello legale e sociale. Leggi come quella del "ritorno", che garantiva la cittadinanza automatica agli ebrei di tutto il mondo, non riconoscevano il diritto al ritorno per i palestinesi espulsi o fuggiti durante la guerra del 1948. Questo quadro giuridico era accompagnato da gravi disuguaglianze economiche e sociali, dove i palestinesi cittadini di Israele si vedevano negare pari opportunità rispetto agli ebrei. Le municipalità palestinesi ricevevano meno risorse e le terre erano in gran parte inaccessibili, essendo proprietà del Jewish National Fund, che vietava l’acquisto da parte di non ebrei.
Pappé evidenzia come le politiche israeliane abbiano sistematicamente favorito la popolazione ebraica, in particolare nelle aree a maggioranza palestinese. Il caso di Nazareth, che non si è espansa dal 1948, contrasta con la crescita esponenziale di Upper Nazareth, dove la popolazione ebraica ha visto triplicare la sua presenza grazie ad espropri. Tali politiche fanno parte di un progetto più ampio di “giudaizzazione” del territorio, volto a cambiare la demografia del paese a favore degli ebrei. L'obiettivo era impedire l'espansione dei villaggi palestinesi, isolando le comunità e creando difficoltà economiche per limitare la loro crescita.
Lo storico afferma che l’occupazione dei territori palestinesi è incompatibile con i principi democratici. Dal 1967, Israele ha esercitato un controllo militare assoluto sulla Cisgiordania e Gaza, giustificando la situazione come temporanea, ma di fatto essa si è consolidata come parte di uno status quo che mantiene la dominazione israeliana. L’occupazione implica il controllo delle risorse naturali e l’imposizione di insediamenti che separano le comunità palestinesi in enclavi isolate.
Le politiche israeliane vengono solitamente giustificate come un’occupazione “illuminata”, ma Pappé sottolinea che in realtà sono espressione di colonizzazione religiosa. Molti degli insediamenti sono costruiti con motivazioni teologiche, come il diritto biblico alla terra, e non su una base politica razionale. Questi insediamenti non solo riducono lo spazio vitale dei palestinesi, ma distruggono anche il loro patrimonio culturale e ambientale. Un esempio è la valle di Wallajah vicino a Betlemme, dove l'espansione degli insediamenti ha causato danni irreparabili al paesaggio.
Le pratiche di demolizione delle case dei palestinesi, che Pappé definisce punizioni collettive, sono diventate sempre più frequenti sin dall'inizio dell'occupazione. Le abitazioni vengono abbattute per atti di resistenza o per motivi banali come ampliamenti senza licenza o debiti. Inoltre, le case palestinesi vengono sigillate, rendendo impossibile l'accesso ai residenti. Queste misure sono applicate a intere famiglie, causando danni psicologici ed economici devastanti. La strategia israeliana mira a distruggere la coesione sociale e a minare la capacità di sviluppo delle comunità palestinesi.
La situazione dei palestinesi sotto occupazione è aggravata dalla mancanza di accesso a risorse vitali come acqua e terra. Israele controlla la distribuzione delle risorse e privilegia le esigenze degli insediamenti ebraici, mentre le comunità palestinesi sono lasciate in condizioni di penuria. Il sistema giuridico e l'occupazione militare impediscono lo sviluppo economico e sociale dei palestinesi, separando le loro terre e limitando le possibilità di crescita.
Pappé sottolinea che la resistenza palestinese è stata costantemente repressa. Durante le Intifada, la reazione israeliana è stata violenta e sproporzionata, con bombardamenti e distruzione di villaggi. Le pratiche quotidiane di arresti senza processo, torture e demolizioni di case sono documentate da organizzazioni internazionali come Amnesty International, che hanno segnalato violazioni dei diritti umani su vasta scala. Migliaia di palestinesi sono stati uccisi, tra cui molti bambini, mentre altri sono stati sottoposti a torture fisiche e psicologiche.
Anche l’incarcerazione senza processo rappresenta una grave violazione dei diritti umani. Pappé evidenzia che un palestinese su cinque nelle zone occupate ha sperimentato l'incarcerazione senza accuse formali. Le torture, come le percosse e i tormenti psicologici, sono pratiche diffuse.
Israele, quindi, non può essere considerato una democrazia, non solo per l’occupazione, ma per la sistematica violazione dei diritti umani. Anche se Israele si definisce uno stato democratico, numerosi intellettuali e critici israeliani riconoscono che il paese agisce più come una etnocrazia, con un regime che privilegia un gruppo etnico sopra gli altri. L’occupazione e le sue politiche di repressione dimostrano la distanza dalla democrazia e fanno di Israele uno stato che non rispetta i principi fondamentali della giustizia e dell'uguaglianza.